Basket

Happy Casa, la toccante lettera di Kelvin Martin pubblicata da overtimebasket.com

24.01.2020 14:25

Mi chiamo Kelvin Martin, sono un giocatore di basket della Happy Casa Brindisi e vengo da Adel, Georgia, un paesino di circa 5000 anime. Sono un professionista da 8 anni, e in questo mondo da 30. Ho visto il razzismo e la discriminazione coi miei occhi, ho avuto paura per la mia vita più volte, ho lottato con le unghie per essere dove sono adesso. Attraverso le mie esperienze ho sempre cercato una via d’uscita dalla mia città per avere una vita migliore, in modo da poter incoraggiare ed aiutare gli altri ad avere una seconda opportunità. Il basket è stato uno dei miei primi amori e la chiave verso il mio successo. Non do niente per scontato perché mi ha dato moltissime opportunità e ne sono grato. E sono grato al modo in cui grazie allo sport in generale sono diventato ciò che sono oggi e ho superato ogni ostacolo.

Ricordo benissimo il mio secondo anno alla high school, la stagione del basket era appena terminata. A 15 anni volevo due cose principalmente: cominciare a lavorare o diventare un atleta. Inizialmente ho scelto la prima, perché volevo avere i miei guadagni senza dover più fare affidamento sui miei genitori. E così mi sono candidato ad un lavoro in un negozio di alimentari chiamato “Dorsey’s”. Ero un ragazzino, ma avevo capito che dovevo essere responsabile e prepararmi alla vita sin da allora. Purtroppo però non andò come speravo.

Fun fact: è stato l’unico lavoro al quale mi sia mai candidato.
L’unico vero lavoro che io abbia mai fatto da allora è stato quello di giocare a basket.

Eccoci quindi alla seconda opzione: atleta. Diciamo che non è che fossi proprio il migliore, le mie specialità erano il salto in alto e i 400 metri. Il motivo per il quale stavo provando a diventare un professionista era che non lavoravo mentre molti miei amici lo facevano. Probabilmente per le mie capacità atletiche avrei dovuto fare le corse su lunga distanza, dal momento che riuscivo a correre a lungo senza stancarmi. Ma i miei allenatori non la pensavano allo stesso modo.

Un giorno in allenamento, mentre provavo il salto in alto, dissi al mio coach “Io questo non posso farlo, non puoi sperare che qui sia in grado di fare le stesse cose che faccio su un campo da basket”.

Mi fissò negli occhi e urlò davanti a tutti: “Non sei buono nemmeno in quello!”.

Mi fermai, lo guardai e dissi: “Cosa?!” uscendo imbestialito dal campo. Non sono mai stato una persona arrendevole, ma quel giorno smisi non perché non fossi buono ma perché sentivo che quella persona mi aveva profondamente mancato di rispetto. Da allenatore penso che il tuo compito sia far uscire il meglio dai ragazzi che formi, da ognuno di loro. E se un ragazzo ci sta provando con tutto se stesso il tuo lavoro è quello di allenarlo nella miglior maniera possibile.

La stessa cosa è successa quando giocavo a football. Lì mi sentivo discriminato e lo ricordo benissimo. Mi allenavo bene, il mio talento era palese, ero fortissimo… ma non vedevo il campo. Credetemi, uccidevo letteralmente i difensori da wide receiver ma il coach non sceglieva chi andava in campo rispetto alla bravura ma in base al fatto che alcuni dei miei compagni avevano genitori che finanziavano la stessa squadra con dei fondi provenienti da sponsor. Sapevo benissimo, ogni giorno, che pur allenandomi al massimo non avrei giocato e avevo intuito che il mio non scendere in campo era “colpa” dei miei genitori, che non avevano fondi necessari per partecipare come gli altri. Quando sono passato la basket, un po’ per talento un po’ perchè deluso da questo meccanismo, ho trovato una cultura del tutto diversa.Non contava di chi fossi figlio, non contava quanti soldi avessi e nemmeno il colore della pelle: contava quanto eri bravo.

I miei allenatori, proprio quelli che non mi hanno mai dato una chance nel football, dicevano che non sarei stato in grado di ottenere una borsa di studio giocando a basket. E quando me l’hanno detto ho deciso di dimostrare loro che avevano torto. Due allenatori mi hanno fatto decidere che avrei giocato solo a basket e ci avrei dedicato tutto il mio tempo. E quando ero un senior alla high school avevo quindici offerte di borse di studio da squadre di Division One, che aumentarono man mano che la stagione andava avanti.

Avevo sorpreso tutti. Era stata la mia vittoria più grande.

C’erano gli allenatori dei college che venivano a Cook County per vedermi all’opera. Le palestre avevano i posti esauriti perché la gente voleva vedermi segnare, schiacciare, stoppare. Ero arrivato al livello successivo per dimostrare a quei due allenatori di football che avevano sbagliato. Ormai tutti credevano in me ed erano d’accordo con la mia decisione di dedicarmi solo ed esclusivamente alla pallacanestro. Questo è quello che un allenatore deve fare: aiutare, incoraggiare ed ispirare non solo sul campo ma anche fuori. Questi ragazzi facevano di tutto per essere sicuri che la nostra squadra avesse esattamente la stessa possibilità delle altre di avere successo. Erano duri con noi, ma ci insegnavano come essere uomini. Ci facevano viaggiare in divisa, si assicuravano che passassimo gli esami e che rispettassimo tutti. Sono cresciuto grazie al basket ripetendomi che volevo essere come loro, aiutare i ragazzi come loro avevano aiutato me e gli altri. Questo significa avere un cuore. Ognuno di loro aveva le sue famiglie, eppure su quel rettangolo ci trattavano come se ne fossimo parte integrante.

Essendo cresciuto in una piccola città la cosa che veramente mancava era essere parte di una comunità. Nessuno organizzava eventi per tutti, nessuno parlava ai bambini o pensava a dei camp gratuiti per toglierci dalla strada e farci socializzare. Era come se fossimo segregati. Uniti e accomunati solo dalla violenza, dalla droga, dalla morte che avevamo attorno. Io da bambino sapevo di volere un modello al quale ispirarmi, qualcuno che facesse quello che avrei voluto fare io e che parlasse ai più piccoli organizzando qualcosa per tutti noi. Qualcuno che portasse positività e amore. Non ho mai provato niente di tutto questo.
Ho capito che vivendo in una piccola città l’unico modo che hai per uscirne è essere talmente bravo da andare al college. In pratica o sei bravo nello sport, o entri nell’esercito. Queste erano le alternative che un bambino si trovava davanti per avere successo.

Non avevamo nessun modello per capire quale punteggio bisognava ottenere nel SAT o nel ACT per essere ammessi al college. E nemmeno sapevamo che i nostri risultati determinassero se al college potevamo andarci o meno. Imparavamo semplicemente dalle nostre esperienze, da soli. E per fortuna abbiamo trovato persone all’interno del nostro sistema scolastico e nella comunità che ci potevano aiutare. Mancava una guida che ci accompagnasse nella vita di tutti i giorni e facesse da ispirazione.

Immaginate l’impatto che potrebbe avere un atleta professionista della vostra città che occupa il suo tempo passandolo con i vostri figli, nipoti, fratellini, parlando delle sue esperienze. Esattamente quello che avrei voluto io con tanti dei miei compagni, ma siamo cresciuti senza questa componente.

Quando ero alla high school qualcuno mi ha detto di non dimenticare mai da dove venivo e ho risposto che non lo avrei mai fatto. Ricorderò sempre il posto che mi ha fatto diventare la persona che sono adesso, ma nel crescere mi sono detto che se avessi avuto successo avrei ricambiato tutto quello che avevo ricevuto e sarei stato disponibile con chiunque avesse voluto avere di più da se stesso. Mi hanno sempre detto che io ero speciale, che non ero come i ragazzi con i quali crescevo. Non sapevo perché facessi cose per gli altri che nessuno avrebbe mai pensato di fare. Ho sempre pensato di avere un “Rare Heart”. Un cuore unico, diverso dagli altri.

Ho letto un libro un paio di mesi fa, intitolato “Let Love Have The Last Word” (letteralmente “Lascia che l’amore abbia l’ultima parola”) di Common, e c’era questa frase che mi ha colpito e che terrò sempre con me

L’amore è la forza più potente del pianeta ed il modo in cui la tua vita determina chi tu sei.”

Non hai niente se non hai l’amore. Ho sempre pensato che dobbiamo saperci apprezzare ancora prima di amare il prossimo. Il mondo può essere un posto molto brutto e oggi effettivamente lo è. C’è odio, odio verso sé stessi, odio verso il prossimo, distruzione e degrado morale. Noi per primi dobbiamo riempire il mondo con positività, aiutando e prendendoci cura l’uno dell’altro. Siamo una grande famiglia senza distinzione di razza, genere o etnia.

Ci sono problemi più grossi di quanto noi possiamo immaginare, ma se facessimo in modo di aiutare l’altro invece di abbatterlo, quanto meglio potrebbero andare le cose?

Siamo in una società dove mettiamo tutti in mostra i buoni propositi sui social media, ci riempiamo di belle parole o pretendiamo qualcosa in cambio prima di fare un atto buono verso qualcuno. Invece di fare le cose dal nostro cuore, per gentilezza e generosità. Lo so che potrebbe essere difficile aiutare gli altri e che la gente spesso può essere manipolatrice. La chiave però è in tutto quello si dà e si riceve. Come dice la regola d’oro “Tratta gli altri come vorresti che loro trattassero te“. Pensa sempre se fossi al posto di un altro, se ti trattassero in maniera diversa a causa del colore della tua pelle, della tua razza, del sesso o della religione. Diciamo di essere tutti uguali MA NON LO SIAMO e non veniamo trattati come tali. Attraverso l’amore non si vede colore, razza, sesso, religione o genere, vedi un essere umano come tuo fratello o sorella, qualcuno che vuole le tue stesse opportunità, la stessa cura ed aiuto che hai, lo stesso che ricevi. Tutti vogliamo essere amati.

Se a prendere le decisioni di quelli ai quali noi diamo il potere (Governo, Presidente e autorità legislative), fossero i medesimi sentimenti, probabilmente considererebbero cosa sta succedendo nel mondo oggi: povertà, razzismo, schiavitù, va sempre peggio. E si concentrerebbero solo su questi problemi, li affronterebbero, invece di curarsi di cose che non aiuteranno il mondo a risalire, anzi lo faranno ulteriormente sprofondare. Servirebbe un sentimento diverso a guidarli nel prendere decisioni nei loro posti di potere.

Sono stato un bambino che ha sempre voluto aiutare gli altri, e mi sono sempre detto che se ne avessi avuto la possibilità avrei creato un’organizzazione per dare concretamente un aiuto ai più bisognosi. Oggi quell’organizzazione esiste, si chiama Rare Heart e inizialmente si chiamava Off The Court. L’ho fondata nel 2013 e dal 2017 le ho cambiato nome per concentrarmi di più sul concetto di amore. Da quando sono un giocatore di basket professionista ho aiutato gente in tutto il mondo, ma anche prima di esserlo aiutavo la gente più che potevo.

La missione è quella di sfruttare l’amore universale mettendolo su una piattaforma per dargli il maggior risalto possibile. Quando sto dando qualcosa in cambio, o lo sto facendo per qualcun altro, so che molti non farebbero la stessa cosa. Il punto è che non voglio essere come tutti, ma come quel 1% che dà e non si cura di riceverne un tornaconto. Amo aiutare la gente.

So che ci sono molte persone in questo mondo che hanno le risorse per aiutare e non lo fanno. Io sono il primo che sostiene che puoi fare ciò che vuoi di ciò che hai, non voglio forzare nessuno, ma c’è chi non ha nulla o poco eppure lo usa per aiutare chi è in difficoltà. Essendo stato una di quelle persone che non aveva molto ma che avrebbe dato l’ultima delle sue cose per vedere un’altra persona felice, perché questo mi fa sentire felice, sento di essere fatto per questo. Lo amo. Le persone che aiutano a prescindere dalla propria situazione, ecco, quelle hanno un “cuore raro”, ed ecco perché l’organizzazione si chiama così.

Come giocatore di basket amo il Gioco. C’è tanta passione, ci sono tante storie differenti. Ogni atleta ha qualcosa da raccontare. Tante volte allenatori, tifosi, giornalisti, social media, non conoscono le storie dietro di noi e pensano solo al fatto che andiamo in campo per giocare. Per noi non è un lavoro perché ci piace farlo. Ci piace far contenti i tifosi, farli sorridere, far indispettire gli avversari, vedere i bambini chiederci foto ed autografi, essere i loro idoli ed esserlo anche delle persone più grandi. La Pallacanestro è giocata con amore. Questo sport riunisce le persone e sapete perché ? Perché a guidarci sono amore e passione. Tutti amiamo la pallacanestro, esserne parte, le sue emozioni, gli alti e anche i bassi. Amiamo il gioco e questo ci porta ad essere tutti insieme dentro l’arena per condividere ciò che abbiamo in comune.

Aiutare chi ne ha bisogno è una cosa meravigliosa. Quello che Rare Heart vuole fare è aiutare gli altri e spronare tutti a fare lo stesso. Non abbiamo niente se non abbiamo l’amore. Io amo tutti e tutte le cose. Sono solo un ragazzo da Adel, Georgia, che sta cercando di diffondere la positività nel mondo. Spero che vi unirete. Con amore, Kelvin.

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